Brain Computer Interface: Fino a che punto può arrivare la tecnologia?

Da oltre quarant’anni vengono studiate le tecniche di Brain Computer Interface e possono rivelarsi utili nei casi di pazienti con difficoltà a utilizzare i canali muscolari o con lesioni alla spina dorsale. Ma fino a che punto può spingersi il progresso?

Negli ultimi articoli abbiamo parlato molto di protesi robotiche e impiego dei sistemi informatici e robotici con i pazienti con disabilità e delle loro implicazioni etiche. Oggi vorrei parlare del “Brain Computer Interface”, un tipo di tecnologia semi-sconosciuto che negli ultimi anni sta prendendo sempre più campo. Questi sistemi svolgono le funzioni assolte dal sistema nervoso periferico laddove queste non sono in grado di lavorare autonomamente e sono costituiti da strumenti di rilevazione dei correlati delle attività cerebrali (come ad esempio gli impulsi elettrici normalmente registrati attraverso l’elettroencefalogramma) e programmi avanzati in grado di decodificare e classificare, attraverso algoritmi di calcolo, i segnali rilevati (input) in output emessi da una macchina, come ad esempio un computer o un arto artificiale.

Queste tecniche sono note da un paio di decenni e possono rivelarsi utili nei casi di pazienti con difficoltà a utilizzare i canali muscolari o con lesioni alla spina dorsale.  Negli ultimi giorni è stato pubblicato su Plos Biology uno studio condotto da un gruppo di ricercatori internazionali, guidati da Niels Birbaumer, esperto del Wyss Center for Bio and Neuroengineering di Ginevra (Svizzera), che ha dimostrato come anche persone completamente paralizzate possano utilizzare questo tipo di sistema per rispondere alle domande che vengono loro poste. Questa ricerca è stata condotta su quattro pazienti affetti da Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), una malattia neurodegenerativa progressiva che colpisce i motoneuroni, cioè le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che permettono i movimenti della muscolatura volontaria. La SLA presenta una caratteristica che la rende particolarmente drammatica: pur bloccando progressivamente tutti i muscoli, non toglie la capacità di pensare e questo comporta molto spesso che il paziente voglia comunicare ma non ne abbia la possibilità. La mente resta quindi vigile ma prigioniera di un corpo che diventa via via immobile.

L’incapacità di comunicare le proprie emozioni e i propri sentimenti nonostante il normale funzionamento delle attività cerebrali è sicuramente uno degli aspetti più crudeli di questa malattia che, nonostante gli sforzi fatti negli ultimi anni, resta ancora senza cura. Questo nuovo studio ha dimostrato che anche pazienti completamente paralizzati possono rispondere alle domande che vengono loro poste. Ai pazienti sono state poste alcune semplici domande a risposta secca e, tramite la misurazione dell’ossigenazione del sangue, si è potuto interpretare la risposta come positiva o negativa.

Un altro tipo di ricerca, condotto nel 2015 dal un gruppo di studiosi dell’University Medical Center di Utrecht, consiste nell’impianto chirurgico nel cervello di un’interfaccia che riceve segnali elettrici e li trasmette ad un software di scrittura. Questa interfaccia è stata testata su Hanneke De Bruijne, una dottoressa olandese malata di SLA dal 2008. Sette mesi dopo l’intervento, la signora De Bruijne è riuscita a controllare in modo indipendente il programma e, in questo modo, riesce a scrivere due-tre parole al minuto. Il dispositivo utilizzato è di un tipo che la Food and Drug Administration Usa ha approvato per il trattamento del morbo di Parkinson tuttavia non è esente da rischi e attualmente si parla di questi sistemi solo a livello sperimentale.

Al dipartimento di Salute della donna e del bambino di Padova  invece è in corso uno studio preliminare di fattibilità riguardo la possibilità di utilizzare anche in età pediatrica le tecniche di brain computer interface durante le prime fasi di risveglio dal coma, o da una sedazione profonda, quando i muscoli sono ancora paralizzati. Il progetto prevede l’utilizzo di un piccolo robot per permettere ai giovani pazienti (2-16 anni), attraverso il sistema brain computer interface, di comunicare.  Questo progetto rappresenta la seconda fase del progetto che, in collaborazione con il liceo Fermi di Padova, ha portato alla creazione di Baby Goldrake, un piccolo robot umanoide da utilizzare in clinica per aiutare i più piccoli a superare il trauma delle terapie dolorose, come ad esempio le iniezioni endovenose.

Testo a cura di Gianluca Pedemonte