Robots, Apps and Brain Scans: New Tools to Help the Autistic Child

Lo scorso settembre la squadra di calcio della Florida State University fece visita alla scuola media di Tallahassee. Durante l’ora di pranzo Travis Rudolph, atleta-studente, notò un alunno della sesta classe, Bo Paske, che pranzava da solo e si unì a lui.

 

Lo scorso settembre la squadra di calcio della Florida State University fece visita alla scuola media di Tallahassee. Durante l’ora di pranzo Travis Rudolph, atleta-studente, notò un alunno della sesta classe, Bo Paske, che pranzava da solo e si unì a lui. Bo era abituato a pranzare da solo, infatti è un ragazzo autistico. Questa storia ha iniziato a girare quando la madre di Bo ha scritto un post su Facebook, diventato virale, dove veniva ricordata la condizione e la solitudine del figlio. Questa storia toccò le persone perchè ricorda qualcosa di molto doloroso: la ferita dell’esclusione sociale.

Tutti abbiamo conosciuto bambini che pranzano o giocano da soli e tutti, in un momento o nell’altro, ci siamo sentiti esclusi. Ma, se questa esperienza può essere cosiderata universale, una nuova generazione di bambini vive un’ondata di inclusione. La tecnologia, spesso considerata ‘isolante’ può effettivamente agire sulle buone intenzioni della gente o aiutare le persone autistiche. Una nuova applicazione chiamata Sit With Us, inventata da Natalie Hampton, una ragazza di 16 anni, si propone di aiutare i bambini vulnerabili che hanno difficoltà a trovare un gruppo accogliente nelle sale da pranzo. Il motto di questa applicazione è: “Il primo passo verso una comunità più calda e più inclusiva può cominciare dal pranzo.” Sit With Us consente agli studenti di designarsi come “ambasciatori” e di segnalare a chiunque cerchi compagnia la possibilità di unirsi al loro tavolo. Al di là delle applicazioni, una ricerca innovativa potrebbe aumentare le abilità sociali dei bambini con patologie legate allo sviluppo. Tali tecnologie possono aiutare questi bambini a stringere amicizie una volta seduti al tavolo.

Socializzare con i robot

Un approccio promettente coinvolge alcuni robot che nascono con l’obiettivo di aiutare i bambini autistici a muoversi all’interno di alcune ‘situazioni sociali’. Alla George Washington University stanno incoraggiando circa due dozzine di bambini con autismo a comunicare con i robot umanoidi. Questi rilevano e analizzano le azioni dei bambini reagiscono sempre con l’obiettivo di rafforzare l’apprendimento sociale. I robot, grazie a gesti personalizzati e suggerimenti vocali, creano interazioni gratificanti per i bambini. Questa tipologia di robot coinvolge i bambini in un ambiente sicuro permettendogli di fare pratica nelle relazioni sociali. Bambini che, in situazioni normali, sarebbero riluttanti ad entrare in un contesto sociale si sentono a proprio agio durante l’interazione con un robot, più prevedibile di un essere umano. Inoltre, chi non ama i robot?

I risultati iniziali mostrano che, l’interazione con i robot, coinvolge una cascata di sistemi neurali che supportano una percezione e uno scambio di interazioni sociali.  I robot possono quindi servire come un ponte in un sistema di ricompensa e di motivazione nel cervello dei bambini con autismo. Possono orientare l’attenzione di un bambino verso le caratteristiche socialmente rilevanti di una situazione e modellare le risposte cerebrali. Inoltre i robot possono anche essere utili per il targeting dei problemi sensoriali. Per esempio, i bambini con autismo spesso si sentono sopraffatti o ansiosi in presenza di musica forte, luci brillanti o forti odori. Interagire con robot che forniscono stimoli calibrati con attenzione e adatti alle reazioni del bambino potrebbero insegnargli ad affrontare e comunicare questi problemi sensoriali. Chung-Hyuk Park un robotico della George Washington University, sta sperimentando vari tipi di robot per determinare il modo migliore di utilizzarli per migliorare l’efficacia del trattamento dei problemi di comunicazione sociale nei bambini con autismo.

Articolo di Kevin Pelphrey, pubblicato per la prima volta il 10 Gennaio 2017 sulla rivista American Scientist

Traduzione a cura di Gianluca Pedemonte

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